KEYRAS
90 racconti di Isa J. Vinci
In quanti film la protagonista, durante l’esplorazione dell’antica casa nella quale si è appena trasferita, puntualmente scopre in soffitta una scatola misteriosa che non si sa né a chi sia appartenuta né cosa contenga? Incapace di resistere alla curiosità, si fa coraggio, la apre e…
Ecco, KEYRAS è come la scatola trovata in soffitta. Al suo interno, una raccolta di 90 tra racconti, sogni, incubi, fotografie, ricordi dei quali il re è lui, l’amore, il primo e più antico dio della cosmogonia di Esiodo.
Ora in tono leggero e ironico ora drammatico e intimista, dall’horror al racconto storico alla favola all’erotico, l’amore esce dalla scatola delle KEYRAS per narrarsi a immagine e somiglianza dell’autrice che continua così, a modo suo, un discorso iniziato quando l’uomo imparò a scrivere, 4000 anni fa e che non avrà fine finché ci sarà anche un solo essere umano sulla faccia della terra.
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Alcuni racconti tratti da KEYRAS
WW2
«Facciamo l’amore» disse togliendomi il cesto con i mirtilli dalle mani.
«Come l’amore?» chiesi sorpresa. «Siamo tutte sudate e impolverate…»
Fece una smorfia: «A che servono i fiumi? Avanti, vieni» disse prendendomi per un braccio.
«Servono per pescare?» chiesi fingendo di fare resistenza. «No» rise.
«Allora per lavare i vestiti?»
Rise di nuovo, ma non smise di trascinarmi. Arrivate all’ansa sabbiosa mi tolse la camicia, poi tolse la sua e mi spinse in acqua. La giornata era stata torrida e il contatto con l’acqua fredda del fiume ci tolse il fiato per un attimo. Rimasi a guardarla. Il viso abbronzato dalla vita all’aria aperta faceva risaltare i suoi occhi chiari che in controsole avevano lo stesso colore dell’acqua. I seni candidi prima che suscitarmi desiderio mi facevano tenerezza e mi sentivo invadere da una voglia struggente, quasi violenta di proteggerli dal sole, dagli sguardi altrui, dalla guerra, dal male.
Mi avvicinai, le appoggiai le mani sui fianchi e la trassi a me:
«Serve per arrivare al mare?» chiesi in un sussurro.
Annuì: «E anche oltre.»
«Oltre?»
«Sì, oltre l’orizzonte, lontano.» Sentii una morsa allo stomaco. Lontano, sì, era là che dovevamo andare, ovunque si trovasse, qui non saremmo potute restare ancora per molto. Le notizie arrivavano frammentate e distorte dal passaparola, ma l’avanzata delle forze di occupazione era cosa certa.
«Smetti» mi disse con fermezza intuendo i miei pensieri. «Smetti.»
Mi prese il viso tra le mani, mi baciò piano e io in un secondo dimenticai tutto tranne noi.
Tornammo a casa bagnate fradice e felici di una felicità chiassosa, la più bella, quella immotivata che esiste come esiste l’amore, perché sì e basta.
Non la finivamo di chiacchierare e ridere, non era rimasto un solo mirtillo nel cestino, ma la felicità è anche una guancia, il collo, un seno sbaffati di blu.
Andammo a lavarci e indossare qualcosa di asciutto.
Le giornate avevano cominciato ad accorciarsi, quindi presi una lanterna e la portai in giardino mentre lei preparava l’orzo, il caffè ormai non si trovava più da tempo.
Era il nostro rito serale. Sedute sulla panca, bevevamo un’ultima tazza per lo più in silenzio, cullate dai rumori della notte e il profumo della lavanda e del rosmarino, quell’odore che, assieme ai colori caldi di fiori e campi, ci aveva fatto tanto innamorare della Provenza da decidere di terminare lì la nostra fuga da Parigi, ormai occupata.
Mi appoggiò la testa sulla spalla e mi abbracciò: «Domani scegliamo la destinazione» bisbigliò.
Sospirai: «Sì.»
Si accomodò meglio: «Non credo che ci resti molto tempo, in paese hanno parlato di una settimana al massimo e poi occuperanno la regione.»
«Già, credo che le previsioni siano addirittura meno rosee di così.»
Rimanemmo in silenzio per un paio di minuti, ognuna persa nelle sue riflessioni. Non era lasciare quella terra che mi preoccupava, era come saremmo potute uscire dal paese. Avevamo contatti con la Resistenza, ci avrebbero aiutate, però era comunque rischioso. Che alternativa avevamo? Restare sarebbe equivalso a farsi ammazzare di sicuro, meglio scegliere l’incertezza, meglio scegliere la speranza.
In quel momento sentimmo uno sparo e l’abbaiare furioso di cani. Provenivano dalla casa dei nostri vicini.
Saltai in piedi e la presi per mano trascinandola in casa.
«Tieni» dissi ficcandole una giacca in mano. «Vai.»
Mi guardò come se non avesse capito: «Vai? Ma… vai dove? E tu?»
Scossi la testa e la spinsi verso la porta: «Il fiume, vai al fiume, se hanno i cani non riusciranno a seguire il tuo odore.»
Lasciò cadere a terra la giacca: «Io non vado da nessuna parte, sei matta?»
Non so se fu la mia immaginazione, ma mi sembrò di sentire delle voci che si avvicinavano.
«Va bene, vado a prendere la pistola, tu però intanto scappa, ti raggiungo subito» dissi e corsi verso le scale.
Non serviva a nulla quella pistola, lo sapevo benissimo, c’era solo un colpo, ma almeno avrei trattenuto lì quelle bestie, le avrei dato tempo di allontanarsi e poi…
Sentii la porta di casa spalancarsi e due uomini gridare qualcosa in tedesco. Corsi sul ballatoio. Uno dei due le immobilizzava le braccia mentre l’altro rideva e continuava a gridare sguaiato. Ero incapace di muovermi, di pensare, come se il mio cervello non riuscisse a elaborare alla stessa velocità con cui si stava svolgendo la scena.
L’uomo smise di ridere e iniziò a togliersi la cintura. Lei alzò gli occhi e mi guardò per un attimo che non riuscimmo a finire mai più.
Senza dire una sola parola, mirai e le sparai.
(da KEYRAS di Isa J. Vinci)
IL PONTE DI IÉNA
… perché io quando chiudo, chiudo e non ci sono ripensamenti di sorta.
Puoi deludermi un milione di volte o una sola, non è questione di quantità, nella vita ho sempre e solo privilegiato la qualità, quindi quando chiudo, chiudo.
Sbattuta l’ennesima porta sul passato, mi ero buttata nel nuovo inizio, il vecchio e fedele trolley al seguito, i mezzi guanti comprati a Camden Town una ventina di anni prima perché “ma-come-si-fa-a-sopportare-quelli-normali?”, un foulard dai colori dell’alba e il giaccone che pesava più di me, ma era caldo e aveva tante tasche. Adoro le tasche, mi ricordano che possono essere piene o vuote di meraviglie, la scelta è mia e solo mia.
Mi venne da ridere, ero nella ville lumière e non si vedeva a un palmo dal naso. Non c’era anima viva e del resto a chi sarebbe saltato in mente di andarsene in giro alle tre di notte del primo gennaio in quel nebbione? A me, ma io sono speciale, si sa, lo sono sempre stata. Probabilmente la persona speciale stava per fare una cosa stupida, ma vabbe’ sono speciale anche nella mia stupidità. Il fatto è che quando chiudo, chiudo, però ho bisogno di suggellare il cambiamento con una specie di rito, sì, un gesto simbolico. Perché? Non lo so enon m’importa nemmeno di saperlo, mi piace non conoscere tutto di me, avere ancora qualche mistero da svelarmi.
Insomma, volevo attraversare quel ponte un’ultima volta, quello che avevamo attraversato il giorno del nostro primo incontro, il mio con quello del mio recente passato intendo.
Era stato tutto terribilmente romantico: appuntamento sotto la Tour Eiffel, passeggiata nei giardini del Trocadero, pomeriggio a zonzo tra le bancarelle della Rive Gauche e serata a Montmartre, cena con violinista compreso a rendere l’atmosfera degna di un romanzo rosa. Però non aveva funzionato. Sarà perché detesto il rosa?
Avrei potuto farlo in un altro momento questo benedetto rito, in realtà, invece di andare a quell’ora del mattino in uno dei pochi giorni in cui la città dormiva davvero, ma soprattutto avrei potuto farlo alla luce del sole e con una temperatura meno artica. Ormai c’ero e poi non sono tipa da lungagnate, meglio un taglio netto, subito.
«Est-ce que vous avez du feu?»
Rimasi così spiazzata che mi immobilizzai. Ci volle qualche secondo prima che, tirata fuori dai miei pensieri bruscamente, mettessi a fuoco la donna che aveva pronunciato quelle parole e le traducessi. Intanto lei mi guardava con un sorriso gentile sulle labbra, una sigaretta tra le dita e gli occhi chiari che le illuminavano il viso più dei lampioni del ponte di Iéna sconfitti dalla nebbia. Non era bellissima, ma mi resi subito conto che avrebbe potuto esserlo, sarebbe bastato innamorarsi di lei e dei suoi denti irregolari, dei capelli che le ricadevano spettinati sulla fronte e della pelle chiara come madreperla.
«Est-ce que vous avez du feu?» chiese di nuovo.
Certo che ce l’avevo perché le tasche servono proprio a questo, a contenere piccoli oggetti che poi magari faranno la grande differenza nella vita. Le porsi l’accendino e lei lo prese senza smettere di guardarmi, ma prima di portarsi la sigaretta alle labbra mormorò:
«Il fait très froid ici, on pourrait prendre un café là-bas…»
Non compii il rito.
Non ci prendemmo il caffè.
Ah sì, e lei non fuma.
(da KEYRAS di Isa J. Vinci)